Torino, sabato 14 maggio 2016
Il primo e l’ultimo
Fabrizio Gambini
È già successo, e forse è stato anche un successo in questo paese, di avere a che fare con delle convergenze parallele. Quello con cui ci tocca oggi di avere a che fare sono addirittura delle convergenze divergenti.
Il Seminario che Jacques Lacan ha tenuto negli anni 1977 e 1978, e che ha chiamato “Il momento di concludere”, è segnato da una doppia tensione: da un lato l’approfondimento di una topologia delle superfici toriche e dei nodi che cerca, un po’ disperatamente, di incontrare la clinica e, dall’altro, una riflessione sulla clinica e sul discorso della psicoanalisi che, nonostante se stesso, nonostante ogni suo sforzo, sembrerebbe ridursi a una chiacchera tra le chiacchere o, se si preferisce questa formulazione, non cessa di essere un far poesia.
Dunque topologia e clinica che si cercano e che non si incontrano. Cercandosi, sforzandosi di convergere l’una verso l’altra, finiscono per separarsi sempre di più. L’impressione che se ne ha nella lettura di questo seminario è quasi fisica: lezioni dedicate al far parola, alla constatazione del non riuscire a cessare di far parola e, a fianco, lezioni sulla tessitura di nodi su superfici toriche rovesciabili che sembrano non riuscire a far altro che andare di per sé, per una strada loro.
Far parola, parlare, non è dire; non è cioè il dire dell’analista che è in fondo solo evidenziazione dell’ambiguità del significante. Ma appena cerchiamo di dire attorno a questo dire, rieccoci a far parola, a far chiacchere, a far poesia. Forse, come mi ha fatto notare Bernard Vandermersch scherzando, ma senza scherzare tanto, bisognerebbe vietare questo Seminario ai minori e non far sapere troppo in fretta che è questo il punto d’arrivo di Lacan: un punto d’arrivo che non è tra i punti di partenza più comodi.
Oppure no, bisognerebbe dire chiaro e forte che è da qui che si parte per quel che resta della psicoanalisi nel mondo delle neuroscienze. Si parte da una banda di Slade, che era una ciarlatano e un imbroglione, ma si parte anche dagli incroci dei tre registri che, come già sapevamo, sono un’unica consistenza ma, ed è questa la novità, sono anche un’unica banda. Non è più solo questione della consistenza immaginaria di Reale, Simbolico e Immaginario, bensì anche della ricorsività del Reale, un Reale che non tocca mai l’immaginario restandone separato dalla faglia dell’Inibizione che condiziona l’imprescindibilità dell’impossibile di una parola che non riesce a essere una bocca che bacia se stessa, ma anche una parola che non teme di non riuscire a incontrare il proprio oggetto.
Se il gioco di prestigio funziona noi, gli analisti, di questa parola siamo i testimoni senza diventarne i buoni celebranti o i cinici sfruttatori.