Ma, a proposito, che ne è di lei?
Lo psicanalista ne sa certamente qualcosa, giacché ci lavora ogni giorno. La incontra in ogni momento della sua pratica, non appena invita qualcuno a dire che cosa c’è, che cosa non va, che cosa gli fa difficoltà: ossia a parlare. Assieme alla parola, entra in gioco la verità.
L’atto dello psicanalista apre questo: questa bocca, questo buco d’ombra.
Come a dire che c’è tanto da fare, giacché è proprio questo che al giorno d’oggi vengono a tappare i tantissimi enunciati delle ideologie, delle religioni, delle parole d’ordine, di tutti quei saperi con le risposte pronte per chiudere il buco. Occorre sottolineare che ne siamo strapieni?
Le risposte vengono sempre date in nome della verità, ma si tratta essenzialmente di enunciati fatti passare sotto questo nome: la verità di un senso e di un senso pieno, senza faglia, ideale – in una parola immaginaria (da non confondersi con irreale).
L’individualismo rivendicato dalla nostra epoca riassume tale senso unico nei suoi termini più semplici: si tratta dell’io, formazione immaginaria par excellence, totale e totalitario, atto a diffondere orizzontalmente come verità qualsivoglia senso, purché… faccia senso.
Possiamo produrre del senso come verità totale con qualunque enunciato, ivi compresi quelli psicanalitici. Gli enunciati di Freud, così continuamente orientati dalla preoccupazione di mantenere l’apertura della verità, sono stati regolarmente richiusi dai suoi allievi alla ricerca di religione – vedi per es. Jung, che pure era un discepolo brillante, o i tentativi contemporanei di mostrare come la psicanalisi sia riversabile nell’ideologia.
La scienza, è vero, non sembra alle prese con queste difficoltà. Ma è perché non ha bisogno di nessuna verità: le basta essere valida, cioè correttamente scritta. Non chiediamo a un’equazione se è vera, ma se è giusta, ossia se è scritta bene. Si capisce che oggi la scienza possa funzionare ovunque da referenza, scienze “umane” comprese: fuor di verità. Si presta a servire qualunque potenza, in primo luogo quella dell’Io (in quanto corpo potenziato, per esempio).
Ch. Melman ha detto che Lacan era un amante della verità… e di fatto ha in continuazione riaperto questa dimensione essenziale per la psicanalisi quando, dopo Freud, essa era in procinto di richiudersi. Nello specifico lo ha fatto sottolineando che per il corpo parlante, per il parlessere, la verità non è una sostanza, un senso o un enunciato, ma in primo luogo un posto: il posto di ciò che è rimosso da ciò che comanda in un discorso. Con il che la verità è necessariamente legata a un corpo, al godimento di tale corpo e al discorso che ne organizza il godimento.
Così articolata, la verità non è mai tutta intera, giacché ciò che indica al soggetto, ciò che avvicina non è un senso, ma il reale con cui ha a che fare quel corpo, a cominciare dalla morte, come osservava Freud, il che non la rende per forza simpatica… E questo reale: non vi è alcun modo per il parlessere di farne un enunciato o di conferirvi un senso, dato che è da lì che proviene la sua parola, ancora e ancora, non appena si mette a parlare.
Rimettere in gioco la verità per un soggetto, ossia questo rapporto con il reale che lo fa parlare, è la questione che lo psicanalista riapre ogni volta e che tenta di mantenere aperta: invitando in questo modo colui o colei che si mette a fare un’analisi a non dare per scontate le abitudini del proprio godimento e del linguaggio che le presiede.
Ecco alcune delle questioni rigeneranti che abbiamo potuto riaprire leggendo Il rovescio della psicanalisi in questa fine agosto nizzarda.
Stéphane Thibierge
Presidente dell’ALI