Dalle parole di un’analizzante emerge l’importanza che ha avuto nelle relazioni familiari tra i fratelli il » fare dello spirito « . L’umorismo di barzellette, battute, giochi di parole davano lo stile alla comunicazione tra di loro mentre la presa in giro, l’ironia, la schermaglia scherzosa costituivano una buona parte del loro rapporto, in particolare del rapporto tra fratelli e sorelle. Il discorso inoltre mette in luce che è dalla madre che è stato loro trasmesso questo piacere, che si divertiva alle loro spiritosaggini, usava lei stessa un linguaggio scherzoso e ironico e amava fare giochi di parole, che avevano sovente l’effetto di sdrammatizzare situazioni spinose e discorsi solenni.
Il padre non partecipava a questo tipo di cose : quando non le ascoltava come espressioni giocose » da ragazzi « , le giudicava sciocchezze poco serie e inopportune. La vita per lui era da prendere piuttosto con senso del dovere, con rispetto e responsabilità : c’è poco da ridere e da scherzare.
La madre nei fatti alleggeriva la posizione del marito, ma non ne smentiva o diminuiva l’autorità facendo, ad esempio, del suo discorso oggetto di spirito.
C’é da parte dell’analizzante molta sima e ammirazione per il padre ma una sensazione come di » troppo » nell’assumere le sue parole, che ha di fatto spesso tentato di condividere e seguire » alla lettera » e da cui ha deviato solo con profonda angoscia.
Alcune osservazioni intanto sulla funzione che lo stile della relazione fraterna aveva assunto possono essere fatte a partire da ciò che Freud ha scritto sull’umorismo e la battuta di spirito.
Ne » Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio » del 1905 Freud individua gli intenti del motto nel fatto che rende possibile il soddisfacimento di una pulsione soggetta a rimozione, sia questa libidica o aggressiva, generando un piacere che quell’ostacolo aveva reso inaccessibile, piacere corrispondente al dispendio psichico risparmiato.
Fare dello spirito allora permetteva di stringere tra i fratelli un rapporto affettuoso ma a distanza, e risolveva l’ambivalenza propria di questo tipo di legame.
Molto spesso le battute più divertenti, ricorda la paziente, erano quelle che giocavano non tanto sulla presa in giro, o la scurrilità (l’intenzione, aggressiva o sessuale, repressa da soddisfare), quanto su cose di poca importanza, sul non senso, sul senso dell’assurdo : le freddure.
Freud chiama queste » motti innocenti « , nota che indirizzano l’attenzione più sul suono della parola che sul senso (come tutti i giochi di parole) e che il piacere é connesso non tanto al loro contenuto quanto a un » corto circuito » che si stabilisce tra due ordini diversi di idee, facilitando il lavoro psichico. Quanto al » piacere dell’assurdo » egli osserva che il fascino di tale spirito é inerente a ciò che la ragione critica, la logica, la realtà proibirebbero di pensare e costituisce quindi una ribellione contro la costrizione al pensiero proveniente da queste.
Così come lo scherzo, questi effetti piacevoli derivano dalla tendenza al gioco del bambino, che scopre il piacere dell’attività intellettuale e dell’uso del linguaggio nella ripetizione di ciò che é simile, nel ritrovamento del già noto, nell’omofonia, meccanismi questi propri della tecnica del motto.L’affermarsi di un atteggiamento critico o razionale circoscriverà questi giochi a momenti particolari di allegria o alla ricerca di circostanze favorevoli per riprenderlo. Più ancora della sostanza dello scherzo, della sua novità o bontà, conta la soddisfazione di poter mantenere vivo il gioco e di aver reso possibile ciò che la critica vieta.
Dice ancora l’analizzante che l’argomento di alcune barzellette o battute di spirito, spesso ripetute così da far parte del lessico familiare, riguardavano la morale, la religione, la scuola, la famiglia. Rientravano cioé in quello spirito che Freud chiama » cinico « . Nei motti cinici infatti egli nota che il diletto è costituito dall’espressione di una critica contro la morale, la religione, le istituzioni, che in quanto indiretta allevia il dispendio energetico che manteneva l’inibizione ed utilizzandolo nel riso, e aggira la sanzione.
Nel parlare da parte dell’analizzante di questi argomenti e della sua implicazione nella problematica che essi sollevano, é frequente l’irrompere del ricordo di una battuta o di una situazione comica che portano sollievo e leggerezza nel discorso ; questo non perde della sua importanza, ma cade qualcosa dell’ordine di una drammatica rigidità e dell’assolutezza, per cui anche il conflitto di cui si parla sembra portarsi ad un altro livello.
Nello scritto del 1927 dedicato a L’umorismo Freud dirà che questo » ha non solo un che di liberatorio, come il motto di spirito e la comicità, ma anche un che di grandioso e di nobilitante… che risiede nel trionfo del narcisismo, nell’affermazione vittoriosa dell’invulnerabilità dell’Io (che) rifiuta di affliggersi delle ragioni della realtà … esprime un sentimento di sfida … è il trionfo del principio del piacere » (S. Freud, L’umorismo, in O.S.F., vol. X, 1978, p. 504-505). L’umorista si comporta come un adulto nei confronti dei bambini di cui riconosce l’inconsistenza degli interessi e delle pene e in tono amabilmente consolatorio ne fa sorridere. » L’umorismo sarebbe il contributo alla comicità dovuto all’intervento del Super-io « . (ibid., p. 508).
Queste osservazioni di Freud aiutano a chiarire il ruolo che il riso ha avuto nella famiglia, e il modo caratteristico con cui la paziente ha tentato di trovare una propria collocazione in relazione al riconoscimento e al rispetto dell’autorità parentale e internamente all’istanza superegoica che la rappresenta.
Per comprendere meglio il suo discorso, si può ritrovare qualcosa di più specifico, perché interno alla struttura del linguaggio e alla funzione paterna, nell’articolazione che Lacan permette di fare tra la parola come significante e come lettera.
E’ la parola in quanto significante e cioé non legata univocamente ad un significato ma aperta a più significazioni che permette di fare dello spirito ; parlando della metafora, cioé di una parola per un’altra, Lacan la colloca infatti » nal punto preciso in cui il senso si produce nel non-senso, cioé in quel passaggio che Freud ha scoperto dar luogo, quando superato a ritroso, a quella parola, a quel mot, che in francese é » le mot » per eccellenza (le mot d’esprit), la parola che non ha altro patronato che il significante dello spirito e in cui si tocca con mano che é il proprio destino che l’uomo sfida attraverso la derisione del significante « . (J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio, in Scritti, Torino, 1974, vol. I, p. 503).
Lo spirito di cui parla è, crediamo, lo spirito della » lettera « , la sua facciata significante. La lettera uccide non quando é presa » alla lettera « , cioé in quanto fonema, » supporto materiale che il discorso prende dal linguaggio » (ibid., p. 490) ma quando é ad un’unica significazione che rimanda, che si aggancia ad un significato, di cui a sua volta é misconosciuto il valore significante ; quando per essere » esatta « , rinuncia ad essere simbolo di un patto, quello per cui ogni sogetto entrando nel linguaggio, che è li prima ancora della sua nascita, può iscrivervi il proprio desiderio a patto di rispettarne le leggi. La lettera così intesa non può allora che essere sempre » rubata « , ciò di cui nessuno può essere stabilmente e legittimamente proprietario e lettore, ma semmai per un momento custode e postino.
Non si tratta tanto di sottolineare il carattere convenzionale del linguaggio, quanto di coglierne il valore di simbolo, simbolo di un’assenza dell’oggetto di cui la parola vorrebbe cogliere l’essenza. E’ qui il passaggio » dal campo dell’esattezza al registro della verità. … registro… che… si situa assolutamente altrove, cioé propriamente alla fondazione dell’intersoggettività. Si situa là dove il soggetto non può cogliere nulla se non la soggettività stessa che costituisce un Altro in assoluto « . (J. Lacan, Il seminario sulla Lettera rubata, in Scritti, Torino, 1974, p. 16).
» Ciò che questa struttura della catena significante scopre, è la possibilità che ho, appunto nella misura in cui la sua lingua mi è comune con altri sogetti, cioé nella misura in cui questa lingua esiste, di servirmene per significare tutt’altra cosa da ciò che essa dice. Funzione della parola più degna d’essere sottolineata che quella di mascherare il pensiero (il più sovente indefinibile) del sogetto : cioé quella di indicare il posto di questo sogetto nella ricerca del vero « . (J. Lacan, L’istanza cit., p. 499) Ed é questo posto che il motto, portando qualcosa della sua verità che viene dall’inconscio, permette al soggetto, nel lampo di una battuta, di occupare.
Se èla funzione paterna quella che barra il rapporto tra significante e significato, facendop sì che ogni significante non rimandi che ad altri significanti, secondo la struttura stessa del linguaggio, regolato dalla metafora e dalla metonimia, è il discorso della madre che la veicola ; non tanto nel modo in cui la madre reale si colloca in rapporto alla persona del padre, » ma del caso ch’ella fa della sua parola, diciamo il termine giusto, della sua autorità, in altri termini del posto che riserva al Nome-del-Padre nella promozione della legge » (J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, Torino, 1974, vol. II, p.574).
Non si tratta di confondere e di appiattire i tre diversi registri, quello simbolico, immaginario e reale, nei quali si può parlare di padre e di madre, né di attribuirne la funzione rigidamente al genitore, o a uno dei due esclusivamente.
Ma se » La funzione paterna concentra in sè relazioni immaginarie e reali, sempre più o meno inadeguate alla relazione simbolica che la costituisce essenzialmente « (J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti, Torino, 1974, p. 271), é possibile pensare, nel caso della nostra analizzante, che la madre reale abbia svolto una doppia funzione : da un lato abbia indicato la possibilità di riportare nel linguaggio, cioé nel simbolico, attraverso il gusto per » lo spirito « , qualcosa del simbolico che nella relazione al padre reale rimaneva immaginarizzato : una lettera presa » alla lettera » in modo immaginario, cioé duale. Il discorso del padre tendeva ad essere ascoltato infatti non come proveniente da un altro soggetto, il cui desiderio é iscritto nel linguaggio, collocato per ciò stesso in un luogo terzo, ma essere inteso giungere direttamente a » far legge « , un discorso quindi di fronte al quale non si può che provare angoscia.
Sul versante opposto é però possibile che la madre stessa abbia consentito questo tipo d’ascolto del padre da parte della paziente, deviandone l’angoscia, senza riconoscere – e quindi far riconoscere – nel discorso di lui lo stile che era proprio del suo desiderio di soggetto.
A travers le discours d’une analysante émerge l’importance qu’a eue, dans sa famille, et surtout dans la relation fraternelle, l’humour. Cet humour fait de boutades, histoires pour rire, jeux de mots, donnait son style à toute communication entre eux ; de même, moqueries, ironies, escarmouches, propos badins, constituaient la plus grande partie de leurs relations, notamment des relations entre frères et soeurs. Son discours met aussi en lumière que ce plaisir leur avait été transmis par la mère, qui s‘amusait à tout trait d’esprit ; elle-même employait un langage espiègle et ironique, et aimait faire des jeux de mots, qui souvent avaient comme effet de dépassionner les situations difficiles et les discours solennels.
Le père ne participait pas à ce genre de choses : de plus, il ne les écoutait que comme expressions burlesques et » infantiles « , et les traitait de niaiseries peu sérieuses ou franchement inopportunes. La vie, pour lui, demandait sens du devoir, respect et responsabilité. Il n’y avait pas de quoi rigoler ou plaisanter.
La mère, quant à elle, tentait d’alléger la position du mari, sans pour autant dénier ou diminuer son autorité, sans faire de son discours matière à jeux d’esprit.
Cette analysante, tout en ayant beaucoup d’estime et d’admiration pour son père, a toujours éprouvé une sensation de » trop » dans le fait d’assumer ses paroles qu’en fait elle a souvent essayé de partager et de suivre » à la lettre « , et dont elle ne s’est écartée qu’avec une profonde angoisse.
Quelques observations sur la fonction que le style de la relation fraternelle avait assumé peuvent être avancées à partir de ce que Freud a écrit sur l’humour et sur les jeux de mots.
Dans Le mot d’esprit et sa relation avec l’inconscient, en 1905, Freud saisit les intentions du mot d’esprit dans ce qu’il rend possible la satisfaction d’une pulsion, soit libidinale soit agressive, soumise au refoulement, donnant lieu à un plaisir que cet obstacle avait rendu inaccessible, plaisir correspondant à la dépense psychique dont on faisait ainsi l’économie.
Faire de l’esprit permettait entre frères une relation éloignée quoiqu’affectueuse, et résolvait l’ambivalence propre à ce genre de liens.
Bien souvent les boutades les plus amusantes – selon les souvenirs de l’analysante – étaient celles qui jouaient moins sur des moqueries ou des obscénités (les intentions refoulées, agressives ou sexuelles, à satisfaire) que sur des choses de peu d’importance, sur le non-sens, sur le sens de l’absurde : les jeux de mots.
Freud les appelle » mots innocents » et remarque qu’ils orientent l’attention sur le son du mot plutôt que sur le sens (comme tous les jeux de mots) et que le plaisir y est moins lié aux contenus qu’à un » court-circuit » qui se produit entre deux différents ordres d’idées, facilitant le travail psychique. Quant au » plaisir de l’absurde « , il dit que son charme concerne ce que la raison critique, la logique et la réalité interdiraient de penser, et représente donc une rebellion contre la contrainte à une pensée ainsi imposée.
Tout comme les blagues, ces effets agréables viennent de la tendance de l’enfant au jeu, où il découvre le plaisir de l’activité intellectuelle et de l’usage du langage dans la répétition de ce qui se ressemble, dans les retrouvailles de ce qui est déjà connu, dans l’homophonie, qui sont les mécanismes propres à la technique du mot d’esprit. L’affirmation d’une attitude critique ou rationnelle réduira ensuite ces jeux à des moments particuliers de gaieté ou à la recherche d’occasions favorables de les retrouver. Plus que les contenus de la plaisanterie, sa nouveauté ou sa validité, ce qui compte ici est la satisfaction de pouvoir ranimer le jeu et d’avoir rendu possible ce que défend la critique.
L’analysante dit encore que le sujet de certaines histoires ou de certains mots d’esprit, souvent répétés jusqu’à constituer un lexique familial, concernaient la morale, la religion, l’école, la famille. Donc, ils relevaient de cet esprit que Freud appelle » cynique « . Dans les mots cyniques, il remarque en effet que la délectation est liée à l’expression d’une critique contre la morale, la religion, les institutions, critique qui, demeurant indirecte, allège la dépense énergétique qui maintenait l’inhibition et, l’utilisant pour faire rire, contourne la sanction.
Quand l’analysante parle de ces thèmes et de sa propre implication dans les problèmes qu’ils soulèvent, la fréquente irruption de souvenirs d’une phrase ou d’une situation comique amène un certain soulagement, une légèreté dans le discours qui ne perd pas pour autant son importance, au fur et à mesure que chute quelque chose de l’ordre d’une absoluité et d’une rigidité dramatique, et que le conflit dont on parle paraît se déplacer à un niveau différent.
Dans son écrit de 1928 sur l’humour, Freud dira que l’humour » a non seulement quelque chose de libérateur, comme le mot d’esprit et le comique, mais encore quelque chose de sublime et de noble… qui réside dans le triomphe du narcissisme, dans l’affirmation victorieuse de l’invulnérabilité du Moi qui refuse de se laisser entamer, de se laisser imposer la souffrance de la réalité extérieure… il exprime par ailleurs un sentiment de défi et implique le triomphe du principe du plaisir « . L’humoriste se conduit comme un adulte à l’égard d’un enfant quand l’adulte reconnaîtrait la vacuité des intérêts et des souffrances qui semblent importantes à l’enfant et en rit.
Ces observations de Freud aident à comprendre le rôle tenu par la mère dans la famille de l’analysante, et la façon particulière dont elle y a cherché sa place par rapport à la reconnaissance et au respect de l’autorité parentale, et, intérieurement, par rapport à l’instance surmoïque qui la représente.
Pour mieux comprendre son discours, nous pouvons repérer quelque chose de plus spécifique, puisque intérieur à la structure de langage et à la fonction paternelle, dans l’articulation que Lacan nous permet de faire entre le mot (la parole) comme signifiant et comme lettre.
C’est le mot en tant que signifiant, c’est-à-dire non lié univoquement à un signifié mais ouvert à plusieurs significations, qui permet de faire de l’esprit. En parlant de la métaphore, c’est-à-dire d’un mot pour un autre, Lacan la situe en fait » au point précis où le sens se produit dans le non-sens, c’est-à-dire à ce passage dont Freud a découvert que, franchi à rebours, il donne lieu à ce mot qui en français est le » mot » par excellence, le mot qui n’y a pas d’autre patronage que le signifiant de l’esprit, et où se touche que c’est sa destinée même que l’homme met au défi par la dérision du signifiant « . ( » L’instance de la lettre dans l’inconscient « , p. 508).
L’esprit dont il parle est, à notre avis, l’esprit de la » lettre « , sa face signifiante. La lettre tue non pas quand elle est prise » à la lettre « , c’est-à-dire comme phonème, » support matériel que le discours concret emprunte au langage « (ib. p. 495), mais lorsqu’elle renvoie à une seule signification, qui se rattache à un signifié, dont on a méconnu à son tour la valeur signifiante ; lorsque, pour être » exacte « , elle renonce à être le symbole d’un pacte, celui par lequel tout sujet, au moment de son entrée dans le langage, qui est déjà là avant sa naissance, peut y inscrire son propre désir à condition d’en respecter les lois. La lettre ainsi comprise ne peut être alors que toujours » volée « , quelque chose dont personne ne peut être légitimement propriétaire et lecteur, mais éventuellement gardien et facteur.
Il s’agit moins de souligner le caractère conventionnel du langage que d’en saisir la valeur de symbole, symbole d’une absence de l’objet dont le mot voudrait rejoindre l’essence. Ici se situe le passage » du champ de l’exactitude au registre de la vérité. Or ce registre, … se situe tout à fait ailleurs, soit proprement à la fondation de l’intersubjectivité. Il se situe là où le sujet ne peut rien saisir sinon la subjectivité même qui constitue un Autre en absolu « . ( » Le séminaire sur « La lettre volée » « , p. 20).
» Ce que cette structure de la chaîne signifiante découvre, c’est la possibilité que j’ai, justement dans la mesure où sa langue m’est commune avec d’autres sujets, c’est-à-dire où cette langue existe, de m’en servir pour signifier tout autre chose que ce qu’elle dit. Fonction plus digne d’être soulignée dans la parole que celle de déguiser la pensée (le plus souvent indéfinissable) du sujet : à savoir celle d’indiquer la place de ce sujet dans la recherche du vrai « . ( » L’instance » cit., p. 505).
Et c’est cette place que le mot d’esprit, amenant quelque chose de sa vérité qui vient de l’inconscient, permet au sujet, l’éclair d’une boutade, d’occuper.
Si la fonction paternelle est celle qui barre le rapport entre signifiant et signifié, de façon que chaque signifiant ne renvoie qu’à d’autres signifiants, selon la structure même du langage, réglé par la métaphore et par la métonymie, c’est bien le discours de la mère qui la véhicule ; non pas tellement en fonction de la façon dont la mère réelle se situe par rapport à la personne du père, » mais du cas qu’elle fait de sa parole, disons le mot, de son autorité, autrement dit de la place qu’elle réserve au Nom-du-Père dans la promotion de la loi « . ( » D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose « , p. 579).
Il ne s’agit pas de confondre et d’aplatir les trois différents registres, symbolique, imaginaire et réel, où l’on peut parler de père et de mère, ni d’en attribuer la fonction, rigidement, aux parents, ou à l’un des deux parents, de façon exclusive.
Mais si » la fonction paternelle concentre en elle des relations imaginaires et réelles, toujours plus ou moins inadéquates à la relation symbolique qui la constitue essentiellement » (Fonction et champ de la parole et du langage, p.278), dans ce cas clinique on peut penser que la mère a permis à notre analysante grâce à son humour, à ses mots d’esprit, donc à un jeu du symbolique, de se dégager un peu d’une relation au père réel purement imaginaire, duelle et angoissante, donc de ne plus prendre à la lettre le dire du père. Mais, par ailleurs, c’est probablement du fait de la position maternelle vis-à-vis du discours du père que notre analysante n’a pu que dériver son angoisse dans l’humour sans reconnaître dans ce discours, tout comme sa mère ne l’avait pas reconnu, le style propre du père, c’est-à-dire son désir du sujet.