I. Il sillogismo, semplice, ha funzionato per secoli e secoli : se è vero che la felicità di qualsiasi creatura è riposta nella realizzazione la più perfetta possibile della sua propria \ »natura\ », e se è vero che ciò che essenzialmente caratterizza la natura dell’uomo consiste nel suo essere dotato di ragione, ne deriva che la felicità propria dell’uomo sta, appunto, nel suo realizzarsi quale creatura ragionevole, e cioè nel massimo sviluppo delle sue qualità e capacità intellettuali. Il punto, sviluppato in particolare da Aristotele dans l’Ethique à Nicomaque (libro X, cap. 7), nell’antichità non è mai stato messo veramente in discussione, ed è rimasto saldamente alla base del tratto spiccatamente eudemonistico dell’etica classica : l’uomo virtuoso e felice sarà sempre e solo il sapiente, cioè colui che saprà sottomettere gli impulsi divergenti degli istinti e della volontà ai dettami della ragione e all’acquisizione del sapere. Onde, per contro, il male e l’infelicità deriverebbero sempre, in ultima analisi, da un uso insufficiente o difettoso della ragione, e dunque da ciò che gli stoici definiscono negativamente come l’opinione.
Questa convinzione circa la natura intrinsecamente virtuosa di una ragione che procura la felicità mediante il sapere conosce un momento di grande fortuna nel secolo XIII, sia per influsso dei commenti aristotelici di Averroè che delle personali posizioni di Alberto Magno. All’ombra di queste due auctoritates, ed estremizzando le parole dello stesso Aristotele, il perfetto ideale umano (l’ultima perfectio hominis) viene allora ravvisato nel filosofo, proprio per la sua dedizione a quell’attività puramente intellettuale che costituirebbe il fine naturale dell’uomo e che addirittura solo permetterebbe di definirlo come tale, rappresentando la realizzazione esistenziale della sua \ »vera\ » natura. Per contro, scendendo lungo la scala del sapere, si giunge sino a coloro che sono tanto ignoranti da essere chiamati \ »uomini\ » solo per convenzione linguistica, equivoce, non essendo essi, in verità, diversi dagli animali e restando dunque esclusi dal mondo delle scelte morali. In tutto questo, si delinea una concezione che pone la perfetta felicità, per quanto eccezionalmente ciò possa accadere, alla portata dell’uomo, e che ne fa lo scopo autonomo e autosufficiente della vita, culminando in una mistica dell’intelletto naturalmente raggiungibile, naturaliter adepta, che finisce per opporre un autentico contro-modello alla teoria cristiana delle virtù. La reazione della Chiesa contro posizioni siffatte, che escludevano dall’àmbito della possibile pienezza dell’umana felicità sia la fede, dalla parte dell’uomo, che la grazia, dalla parte di Dio, fu decisa, e trovò un importante momento di condensazione nel 1277, quando un collegio di teologi guidati dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannò come eretiche duecentodiciannove proposizioni estratte per lo più da commenti aristotelici. Tra queste proposizioni molte riguardano il punto in questione, e basterà richiamarne qui alcune, di per sé molto eloquenti : \ »Non esiste condizione di vita tanto eccellente quanto quella di chi si dedica alla filosofia\ » ; \ »I filosofi sono gli unici sapienti di questo mondo\ » ; \ »Tutto il bene possibile per l’uomo consiste nelle virtù intellettuali\ » ; \ »Se la ragione è retta, anche la volontà lo è\ »; \ »In questa vita mortale possiamo conoscere l’essenza divina\ »; \ »L’uomo sufficientemente dotato di intelligenza e di affettività per quanto lo può essere attraverso l’esercizio delle virtù intellettuali e morali di cui parla Aristotele nell’Etica ha tutto quello che basta alla beatitudine eterna\ » (ed. Hissette, rispettivamente nn. 1, 2,170,166, 9,171).
II. Quel che sopra s’è troppo brevemente accenato valga almeno come premessa alla considerazione un po’ più ravvicinata della posizione di Dante : posizione ricca, complessa e culturalmente importantissima. Va sùbito detto che una nota studiosa, Maria Corti, abbastanza recentemente ha cercato di dimostrare come Dante, in una fase particolare della sua vita (i primi anni dell’esilio) sia stato influenzato dall’aristotelismo radicale del secolo precedente, e abbia dunque concesso un po’ troppo alle tesi eterodosse appena esposte, come risulterebbe da frasi presenti soprattutto nei primi tre libri du Banquet, poi, già a partire dal libro quarto della stessa opera, composto in ritardo rispetto agli altri, avrebbe moderato e corretto in senso cristiano quel suo entusiasmo per una felicità tutta mentale e filosofica, \ »qui ne souffre aucune interruption ou défaut\ » (Banquet III 11,14), raggiungibile dall’uomo con le sue sole forze, nel corso della vita terrena. Per parte mia, io attenuerei di molto l’opposizione tra i due momenti istituita dalla Corti, ma soprattutto sposterei la questione su un terreno diverso e sin qui, mi pare, non ben considerato. Sul terreno, cioè, delimitato da un dubbio che è proprio Dante ad affrontare di petto, e rispetto al quale offre risposte divergenti : visto che molte cose, in primis l’essenza divina, sono destinate a restare precluse al nostro intelletto, impedito dunque dal raggiungere una perfezione quanto meno intuita e desiderata, non se ne dovrà forse dedurre che la via del sapere non porta affatto alla felicità, ma semmai al suo contrario, e cioè all’infelicità e alla frustrazione?
Ho detto che Dante offre risposte divergenti : sarebbe forse meglio dire che l’arco delle risposte sta tutto all’interno della domanda stessa, nell’incremento di coscienza e di prospettive anche implicite che essa porta con sé, nella sua propria irresolubilità. Innanzi tutto, c’è qualcosa a cui Dante non può assolutamente rinunciare, e che fa parte, direi, della sua natura : per lui, il sapere ha sempre e comunque un valore intrinsecamente positivo, ed è in esso che si radica la nozione di una possibile felicità umana. Per questo, con gesto assai significativo, egli apre le Banquet proprio con le prime parole de la Métaphysique d’Aristote : \ »Ainsi comme dit le Philosophe au début de la Première Philosophie, tous les hommes naturellement ont désir de savoir\ » (nella traduzione Grossatesta : \ »Omnes homines natura scire desiderant\ »), dal momento che \ »la science est perfection dernière de notre âme, chose en quoi consiste notre félicité suprême\ ». Ma appunto, se le cose stanno davvero cosi
plus d’un peut ici douter bien fort, ne voyant comment se peut faire que la sagesse rende l’homme bienheureux, alors qu’elle ne lui peut montrer parfaitement certaines choses ; vu que l’homme a le naturel désir de savoir, et que, sans accomplir son désir, il ne peut être bienheureux. L’on peut à ceci clairement répondre que le désir en chaque créature est mesuré selon la possibilité de la nature désirante ; autrement, il irait à l’encontre de lui même, ce qui est impossible, et la nature l’aurait fait en vain, ce qui est impossible aussi. Il irait à l’encontre : car désirant sa perfection il désirerait son imperfection, pour ce qu’il désirerait désirer toujours et n’accomplir jamais son désir …
Onde puo concludere che :
attendu qu’il est impossible à notre nature, touchant Dieu et certaines autres choses, de connaître ce qu’elles sont, un tel savoir n’est pas désiré de nous naturellement. Et par là est résolu le doute qu’on soulevait (Banquet III 15, 6-10).
Qui non è possibile sviluppare le varie implicazioni del discorso, bastando sottolineare la sua coraggiosa incongruenza, ché, data la premessa generale, è evidentemente sufficiente che la domanda sia posta (ogni possibile domanda, anche quella relativa alla conoscenza di Dio) perché essa viva ipso facto, proprio in quanto domanda insoddisfatta, nel luogo del desiderio … Importa invece sottolineare quanto già anticipato, e cioè che obiettivo di Dante è quello di difendere ad ogni costo il valore compiutamente positivo e in sé perfettamente realizzato di ogni atto di conoscenza. E ciò è tanto vero, che egli, evidentemente consapevole che quella soluzione non riusciva a chiudere la questione, riprende il problema, nel successivo
libro du Banquet, il quarto, sviluppando le premesse già poste e però intervenendo più sottilmente sul concetto di desiderio, quando sia riferito al sapere e alle sue successive acquisizioni, oppure quando sia riferito alla ricchezza, nel caso dell’avaro. Il testo è molto chiaro, ed è bene citarlo con ampiezza :
je dis qu’en propres termes on ne peut dire que le désir de science s’accroît, encore que, comme il a été dit, il s’élargisse en quelque manière. Car ce qui proprement s’accroît demeure toujour un : le désir de la science n’est pas toujours un, mais il est mille, et l’un fini, arrive l’autre ; de sorte qu’à proprement parler ce n’est pas croître que s’élargir comme il fait, mais à une petite chose faire suivre de grandes choses. Car si je désire savoir les principes des choses naturelles, incontinent que je les sais ce désir-là est accompli et terminé. Et si ensuite je désire savoir la nature et la cause de chacun de ces principes, ceci est un autre désir nouveau, et par la venue de celui-ci ne m’est pas otée la perfection à laquelle me conduisait l’autre ; et un élargissement de cette sorte n’est pas cause d’imperfection, ains de perfection plus grande. Mais ce dont rêve le riche, l’on peut dire que c’est un accroissement en propres termes, car le désir de richesses est toujours un seul et même désir, de sorte que là nulle suite d’étapes n’apparaît, ne conduisant à nul terme et à nulle perfection. L’adversaire, peut-être, voudra disputer, disant : de même qu’il y a un certain désir, celui de savoir les principes des choses naturelles, et un autre désir, celui de savoir la nature et le fondament de ces principes, de même il y a un désir qui est celui d’avoir cent marcs d’or, et un autre désir qui est celui de mille : s’il dit cela, je réponds que ce n’est pas vrai ; car cent est une partie de mille, et a rapport à lui comme une portion de ligne à toute ligne, le long de laquelle on avance par un seul mouvement, où il n’y a nulle suite d’étapes, ni moyen de parfaire le mouvement en aucune partie. Mais connaître les principes des choses naturelles et connaître comment est fondé chacun d’eux, ces questions ne sont point partie l’une de l’autre et ont rapport entre elles comme des lignes diverses, le long desquelles on n’avance pas par un seul mouvement, mais quand le mouvement de l’une est parfait et achevé, à son tour commence le mouvement de l’autre. Et ainsi apparaît que pour désir qu’on ait de la science, la science ne doit pas être dite imparfaite, comme doivent être dites les richesses pures elles-mêmes, selon les termes de la question ; car lorsqu’on désire la science, les désirs s’achèvent successivement et l’on arrive à la perfection ; lorsqu’on désire la richesse, non. De sorte que la question est résolue, et n’a pas lieu d’être. (Banquet lV 13, 1 ss.)
Di nuovo, direi non conta tanto l’argomentazione in sé (a ben vedere, la si potrebbe anche rovesciare), quanto il fatto che Dante, in modo in ogni caso assai brillante e ricco di spunti che qui non si possono raccogliere, torna a difendere la sua concezione compiutamente positiva del sapere rispetto all’umano desiderio di felicità. Si osservi al proposito quanto sia significativo l’uso del verbo s’élargir (dilatare, it.) esplicitamente riferito al desiderio di sapere, ma in realtà riferito anche al sapere stesso, dal momento che Dante vuol dire che quel desiderio tanto s’élargisse quanto si dilatano i confini del sapere, secondo un doppio movimento che non conosce sfasature e che ogni volta e sempre in perfetto equilibrio. Presupposto di tale s’élargir, insomma, è il fatto che per lui l’orizzonte del sapere è sempre e solo dato dal sapere stesso, che via via definisce i suoi limiti e quelli del desiderio che lo sostiene, mentre di là da questo binomio, nel quale la felicità si realizza, non c’è propriamente nulla : nulla per quanto attiene al desiderio, che non puo desiderare ciò che ignora e tanto meno ciò ch’è destinato a ignorare per sempre, e nulla per quanto attiene al sapere, che non può essere un \ »sapere del nulla\ » (onde appunto la differenza tra il croître e il s’élargir, ove il secondo verbo accentua l’idea del già interamente dato, di qualcosa che basta a se stesso ed ha rapporto solo con se stesso, rispetto a un croître che lascia campo all’idea di uno sviluppo secondo un modello trascendente che sta oltre quei confini).
Anche nella nuova veste, tuttavia, Dante sembra consapevole di non aver veramente sciolto ogni dubbio, e aggiunge altre considerazioni, e insomma fa sì che il suo stesso scrupolo non tanto chiuda perfettamente la questione, ma al contrario ne metta sempre più in luce le falle. Sùbito dopo il passo citato sopra, infatti, egli torna in maniera esplicita a quanto già aveva detto nel l.III (ciò che non è possibile conoscere, ebbene \ »un tel savoir n’est pas désiré de nous naturellement\ »), e citando prima Aristotele, Ethique X 7 (in questo caso probabilmente attraverso la Summa contra Gentiles di s. Tommaso, I 5, ove la questione è ampiamente trattata, nel l. III e qui in particolare nel cap. 48) e poi s. Paolo, Rom. 12, ‘: \ »non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem\ », dà al discorso un accento tutto particolare, perché ora sembra piùttosto che l’uomo, per rispettare la sua salute mentale e la sua propria natura, debba porsi dei ragionevoli limiti, relativi tanto alla sua capacità di conoscere quanto alla capacità delle cose ad essere conosciute, e debba insomma evitare di desiderare ciò che non può avere. Ma la contraddizione, così, risulta evidente, perché non avrebbe senso l’esortazione a tenersi entro i confini del possibile se non si ammettesse un’innata tendenza nell’uomo a volerli superare, quasi che ciò che è inconoscibile, ebbene, proprio quello noi naturalmente vogliamo sapere. Ma una siffatta esortazione, del resto, già era nel l. III, 8, 2, affidata, nel caso, alle parole di Eccli. I 3 e III 22 : \ »Sapientiam Dei praecedentem omnia quis investigavit ?\ », e : \ »Altiora te ne quaesieris, et fortiora te ne scrutatus fueris : sed quae praecepit tibi Deus, illa cogita semper, et in pluribus operibus eius ne fueris curiosus\ » (\ »La sapience de Dieu, précédant toutes choses, qui donc la cherchait ?\ »; \ »Tu ne demanderas point choses plus hautes que toi, et tu ne chercheras point choses plus fortes que toi ; mais pense les choses que Dieu te commanda, et, cela vu, en ses oeuvres ne sois point curieux\ »), cosi come torna, per esempio, in un testo tardo quale la Questio de aqua et terra 77 : \ »Cesse donc, ô genre humain, cesse de chercher ce qui est au-dessus de toi, et cherche jusque-là où tu as puissance, pour te hisser aux choses immortelles et divines selon tes moyens ; et laisse les choses plus hautes que toi\ ». A proposito di queste parole, occorre tuttavia aggiungere qualche considerazione, che spero non sia troppo sottile. Esse rimandano ancora una volta ad Aristotele, nel decimo dell’Ethique, già citato dans le Banquet, come abbiamo detto : qui e là, tuttavia, è forte l’impressione che Dante le abbia travisate per accomodarle alla propria intenzione. In Aristotele, infatti, esse vogliono significare che l’uomo deve cercare di innalzare la mente verso le cose divine jusque-là où il a puissance, cioè senza porre alcun limite a questo sforzo di ascesi intellettuale, contro l’opinione di Simonide, il quale avrebbe sostenuto che l’uomo, in quanto tale, avrebbe dovuto limitarsi alle dimensioni umane e terrene del proprio sapere. In Dante, invece, esse paiono assumere il senso opposto, attribuendo egli al jusque-là où l’on a puissance non già il valore di : ‘senza limite alcuno’, ma : ‘solo nella misura in cui le capacità umane lo consentano’, che è cosa ben diversa. E’ vero infatti che qui e là si assume che ci siano dei limiti alle possibilità umane di conoscere, ma là si dichiara, in qualche modo, che tali limiti fanno parte precisamente delle cose destinate a restare sconosciute, e che dunque è dovere dell’uomo non tenerne alcun conto perché non sta a lui stabilire ove fermarsi quando cerchi di avvicinarsi alle verità ultime, perché ogni eventuale atto di auto-limitazione suonerebbe come intimamente contraddittorio e mortificante delle sue capacità intellettuali ; qui invece, in Dante, si raccomanda una sorta di interiorizzazione preventiva del senso del limite, che prende il colore di una volontaria rinuncia, e questo, alquanto paradossalmente, sempre e solo per poter continuare a sostenere che \ »pour désir qu’on ait de la science, la science ne doit pas être dite imparfaite … car lorsqu’on désire la science, les désirs s’achèvent successivement et l’on arrive à la perfection\ ». Il che sta a dire, in altri termini, che il suo ricorso alle citazioni bibliche e le sue ripetute esortazioni a un senso tutto cristiano del trascendente serve in realtà a ribadire il concetto dell’autonoma perfezione e compiutezza del sapere umano e della sua capacità, in tale àmbito, di assicurare la felicità (si che, per questo lato, sembra giusto richiamare, come ha fatto la Corti, l’influenza dell’aristotelismo duecentesco). Si osservi anche come Dante abbia rimandato a Eccli. III 22, ma non certo per riprendere e sviluppare, come farà invece Petrarca sulle orme di Agostino (lo vedremo meglio), il grande tema della condanna della curiositas, ch’era ormai diventato uno dei principali argomenti della polemica anti-scientifica del tempo (specificamente, della polemica contro l’effettiva utilità delle scienze della natura, nel quadro del carnmino dell’uomo verso la salvezza) : la scienza – ogni scienza, verrebbe voglia di dire – ha in lui un difensore assoluto, ed è questa la sostanza forte del suo pensiero che, di là dalle formulazioni cui via via approda, lo porta ogni volta oltre le sue pur evidenti contraddizioni. Le quali, nel caso, continuano però ad esserci, esponendo quanto scrive nell’ultimo ampio passo du Banquet qui richiamato a un tipo di contestazioni assai vicino a quelle che Agostino muove, in un memorabile passaggio del De Trinitate, all’etica classica.
Scrive dunque Agostino che il saggio antico, lo stoico, non è altro che \ »un malheureux avec courage\ », perché parte dal presupposto di non poter in alcun modo vivere come vuole, e perché il suo sapere non consiste in null’ altro che nell’accettazione di questo stato di cose. Ora, si sforzino le righe che seguono trasferendole mentalmente al nostro problema, e si vedrà quanto il discorso di Agostino colpisca al cuore proprio l’atteggiamento assunto da Dante in quel passo du Banquet :
En quel sens il [le philosophe stoïcien] vit comme il veut ? C’est parce que il veut être fort en supportant ce qu’il ne voulait pas qui lui arrive ? Mais donc il veut ce qu’il peut parce que il ne peut pas ce qu’il veut. C’est là tout le bonheur (on sait pas si ridicule où plutôt digne de compassion) des mortels orgueilleux, qui se vantent de vivre comme ils veulent seulement parce que de bon gré ils tolèrent avec patience tous les malheurs qu’ils ne veulent pas qui leur arrivent. On dit que c’est bien ça que Terence sagement conseillait : \ »Puisque c’est impossible que se réalise ce que tu veux, tu dois désirer ce que tu peux\ ». Belles paroles ! personne le nie. Mais il s’agit d’un conseil donné à un malheureux afin qu’il ne le soit davantage. (DeTrinitate XIII 7,10)
Questa infelice felicità, insomma, si presenta del tutto simile a quella che può procurare un desiderio di sapere quale quello che Dante là raccomanda : un desiderio che \ »vuole ciò che può, perché non può ciò che vuole.
Questa citazione dal De Trinitate (con altre intenzioni, vi ha insistito Bodei, nel bel volume Ordo amoris, Bologna, Il Mulino, 1991, in part. pp. 71 ss.) mi sembra opportuna non solo se opposta a quelle particolari formulazioni du Banquet, ma soprattutto se la si prenda come una sorta di introduzione ai versi del canto IV de l’Enfer e, in particolare, del canto III du Purgatoire, dedicati alle anime dei grandi sapienti dell’antichità, confinate nel Limbo. Qui, infatti, il discorso che Dante ha svolto nei modi visti fa un salto, e tutto il problema del nesso plurimo tra sapere –
desiderio – felicità è riformulato in modo profondamente diverso e suggestivo. Si leggano, in particolare, i versi du Purgatoire :
Fol est qui croit que la raison terrestre
puisse voler par la voie infinie
que suit une substance en trois personnes.
Contentez-vous au quia, gent humaine,
car si vous auriez pu tout voir sans aide,
besoin n’était que Marie enfantât ;
et tels vit-on souhaiter sans nul fruit,
dont pouvait être apaisé le désir
qui pour leur deuil éternellement dure :
je parle de Platon et d’Aristote et autres maints …
(III 3441).
Prima di tutto, Dante eloquentemente ribadisce che ci sono alcune cose ch’è follia sperare di comprendere con le forze della nostra ragione (nel caso, il mistero della Trinità) : questo, del resto, è proprio il motivo per il quale la Rivelazione (la nascita di Cristo) s’è resa necessaria. Invita quindi l’uomo a fermarsi al quia, senza presumere di poter accedere al quid di tali cose, cioè a credere alla loro esistenza, della quale la Rivelazione appunto ci fa certi (il quia introduceva le proposizioni oggettive, nel latino medievale), pur senza comprendere quale sia la loro misteriosa essenza, il loro quid. Ed ecco il punto delicato, che richiede una attenta parafrasi : a riprova di quanto detto, già si sono visti molti (Aristotele, Platone …) che hanno inutilmente (sans nul fruit) desiderato tout voir, quando invece, se fossero rimasti contenti al quia, avrebbero placato quel loro desiderio di sapere che ora, nel Limbo, eternamente li tormenta … (non fa differenza che l’ipotesi dalla quale si fa dipendere l’appagamento del desiderio stia nell’ essere quelli rimasti contenti al quia, o piuttosto – c’è indubbiamente, implicito, anche questo significato – nell’aver potuto godere della Rivelazione, dal momento che questa assicura appunto del quia, non del comunque incomprensibile quid).
Non intendo sollevare tutte le questioni che questi versi potrebbero suscitare, ma piuttosto sottolineare quanto ha a che fare più direttamente con il nostro discorso. Intanto, c’è da chiedersi se sia del tutto congruente l’esempio dei grandi filosofi antichi reclusi nel Limbo : essi, lo sappiamo de l’Enfer, devono la loro sorte al fatto di non essere stati battezzati e di non aver creduto, come gli ebrei, a un solo Dio e a Cristo venturo (si veda per ciò anche il canto XXXII du Paradis). Non si tratta, dunque, di uomini che non sono ‘stati contenti’ al quia, per il semplice fatto che a questa dimensione – quella della fede, in sostanza – essi sono rimasti assolutamente estranei. Certo, se avessero creduto, il loro desiderio sarebbe stato soddisfatto, e addirittura non sarebbero nel Limbo … Ma il discorso di Dante è diverso : esso non riguarda affatto le eventuali condizioni che avrebbero permesso ai filosofi antichi di salvarsi ma invece lo scacco che subisce l’intelletto umano là dove pur arriva ai suoi massimi traguardi come in Aristotele e Platone, quando presuma di oltrepassare quel quia, cioè quei contenuti di verità che solo la fede può garantire. Ma, di nuovo, quei filosofi la fede non l’hanno avuta : come avrebbero potuto volerne forzare i misteri ? Per qualche aspetto, insomma, l’esempio non sembra del tutto corretto (a rigore ci si potrebbe aspettare, che so ? degli gnostici …). Eppure, come sempre in Dante, la superficiale incongruenza è strumento di un pensiero ellittico, fortemente concentrato, affidato a una sintassi mentale e poetica di grande effetto. In questo senso, e prima di tutto, Aristotele, Platone e \ »autres maints\ » stanno concretamente a rappresentare l’intelletto umano che realizza se stesso in un totalizzante e tendenzialmente infinito desiderio di sapere (chi, meglio di loro?) : un intelletto dunque che non si è e non si sarebbe fermato dinanzi ad alcun quia. Solo in un momento successivo – per dir cosi -, oltre l’assoluta esemplarità del loro essere, emerge la loro condizione di condannati al Limbo. La quale condizione, giustificata da opposti versanti tanto dalla loro mancanza di fede quanto dai loro altissimi meriti intellettuali, diventa un perfetto, eternalizzato emblema del destino che grava sull’uomo che naturalmente desidera di sapere : quello di desiderare invano, di desiderare \ »sans nul fruit\ », di desiderare senza speranza (Enf. IV 42). Il desiderio infinito si fa pena, frustrazione infinita. Di più, nel Limbo (ecco perché ora il Limbo diventa cosi necessario!), con straordinaria precisione, questo stesso desiderio di sapere si fissa per sempre come perdita, come deuil, proprio perché la pena consiste propriamente nell’eterna perdita di un bene fortissimamente desiderato e mai posseduto, e però presente appunto in quanto perduto da sempre e per sempre. Ma quello che il lutto è là, proiettato nell’eternità dell’oltremondo, n’est pas autre chose du se contenter d’ici bas, visto che, in dimensioni e modi diversi, ciò che determina l’umano destino del desiderio qui e là non è ciò che si sa di sapere, ma ciò che si sa di ignorare.
III. Nella poetica rappresentazione del Limbo, Dante afferma dunque che tutto il sapere dell’uomo, assunto cioè quale somma delle sue positive e storiche realizzazioni, si traduce in una condizione di deuil (non si insisterà mai abbastanza
sulla pregnanza della parola), quando ad esso non s’accompagni un atteggiamento di accettazione, un se contenter dinanzi ai limiti che quello stesso sapere vede e tocca innanzi a sé. E poiché tale atteggiamento, di natura essenzialmente etica per quanto sia proprio in esso che si estenua e consuma, per dir così ogni conoscenza, coincide propriamente con la fede, diventa inevitabile che chi è privo della fede (i grandi filosofi antichi, nel caso), ed è però divorato dal desiderio di conoscere, sia condannato a un desiderio che non ha e non può avere fine. Il Limbo, in questo senso, proietta sub specie aeternitatis e perfeziona come deuil l’inquietudine, il desiderio, il senso di perdita che accompagna la vita di chi non ha mai apaisé il proprio desiderio di sapere. Ora, tutto ciò mette Dante in contraddizione con se stesso? Cancella l’idea che il sapere procuri comunque la felicità ? Direi di sì, per alcuni aspetti ; di no per altri. Suona infatti azzardata e di fatto smentita dallo sviluppo del discorso, già all’interno du Banquet même l’affermazione secondo la quale ci sarebbe un sapere che \ »n’est pas désiré de nous naturellement\ » : tale desiderio è invece tendenzialmente infinito e, per certi versi, il suo approdo nella fede (credere a ciò che non si può capire) non fa altro che confermarlo ed esaltarlo. Ma proprio questo sopraggiungere della fede là dove il pensiero umano urta in ostacoli troppo forti (ma pur pensati come tali !) mostra come Dante non tanto si contraddica, ma semmai corregga e allarghi la sua visione lasciando intendere che il sapere resta pur sempre, passo dopo passo, nei suoi diversi obiettivi di verità e nella catena dei suoi successi, l’unico fondamento di ogni possibile felicità umana. Lo resta, infatti, anche quando si scopre (questa è la novità, rispetto alle dichiarazioni du Banquet) che la sanzione ultima di tale potere non è più in mano del sapere stesso positivamente acquisito, ma della fede : cioè a dire quando si scopre e insieme si accetta che la felicità del sapere sia infine rimessa e custodita da ciò che non si sa. Che, senza la fede, dinanzi all’eterno, le anime di Aristotele e Platone soffrano di un desiderio che si fissa per sempre come deuil, in altre parole, non cancella il fatto che nel corso della vita il sapere è stata la loro possibile anche se non perfetta felicità : e questa felicità è stata in ogni caso tanta e di tale qualità che par quasi bilanciare, là, in un Limbo essenzialmente concepito come un quintessenziato prolungamento della vita terrena, proprio quel deuil … Certo, essi sono dannati nel primo cerchio dell’Inferno : soffrono \ »un deuil sans martyre\ » , e i loro sospiri \ »faisaient l’air éterne trembler\ », e insomma la loro dimensione spirituale è quella della più immedicabile malinconia, ma pur tuttavia possiedono un personale patrimonio di sapienza che conferisce loro un’incomparabile dignità, un principio di riscatto. Infelici sì, ma \ »infelici con coraggio\ », come avrebbe detto Agostino, il cui ritratto del saggio stoico è quanto di più profondamente, intimamente vicino sia dato trovare ai saggi del Limbo, votati per sempre al coraggio della sopportazione (\ »leur semblance n’était triste ni gaie\ »: Enf. IV 84). E come non pensare che a farli cosi infinitamente privilegiati, rispetto agli altri dannati, sia il fantasma tuttavia attivo, potente, di una vita trascorsa nell’inquieta e arrischiata felicità del sapere?
Non credo di star divagando, rispetto al tema dell’ignoranza. Mi sto invece preparando a parlarne, perché è solo contro lo sfondo della posizione di Dante, qui sommariamente riassunta nei tratti più interessanti allo scopo, che acquista risalto il completo capovolgimento operato da Petrarca. Al proposito, giocando un po’ d’anticipo per quello che riguarda quest’ultimo, vorrei sùbito proporre un breve confronto di testi che mi pare per più rispetti illuminante.
Da sempre si è fatto giustamente gran caso al fatto che Petrarca, con un gesto di cui non si possono in alcun modo sottovalutare l’importanza e le conseguenze, abbia scalzato Aristotele dal primo posto tra i filosofi, e vi abbia sostituito Platone. Il punto, tuttavia, va visto meglio di quanto sin qui sia stato fatto. Petrarca, con qualche iniziale timidezza, propone la supremazia di Platone attraverso tutta la sua opera (riprendendo fedelmente l’opinione già espressa da Agostino e da lui soprattutto argomentata nel l. VIII del De civitate Dei), e lo fa, in particolare, in un lungo capitolo della sua opera tarda De sui ipsius ac multorum ignorantia, ove la diffusa dimostrazione ha una solida base di partenza nel creazionismo platonico, contrapposto all’eternalismo aristotelico (altro tema acutamente ripescato dalla tradizione). E’ insomma evidente che, per il tramite privilegiato di Agostino, Petrarca aderisce in pieno e con personale forza di convincimento a quella lunga tradizione esegetica che aveva ripetutamente considerato come molti elementi fondamentali del pensiero platonico raggiungessero il loro pieno significato di verità quando fossero interpretati come espressioni di processi e di realtà sovrannaturali legati alla grazia, pur non arrivando a contemplare l ipotesi che pure trovava in Agostino, che Platone avesse potuto conoscere le dottrine della Rivelazione dell’Antico Testamento, o addirittura che a lui fosse stato rivelato il mistero della Trinità, come ancora pensavano, per esempio, Giovanni di Salisbury e Abelardo. Il punto che qui interessa è tuttavia un altro, e sta nell’argomento che insistemente ritorna : rispetto ad Aristotele e ad ogni altro filosofo, Platone ‘si è avvicinato di più alla verità…’ . Ora, è fondamentale premettere che questo argomento, cosi come Petrarca l’affronta e lo sviluppa con accenti affatto personali, non vale solo in rapporto alle verità di fede, ma ha, per dir così, valore assoluto e finisce per definire la dimensione essenziale di ogni sapere nel rapporto che ineludibilmente intrattiene con il suo stesso rovesciò, cioè con quel non-sapere che non solo lo limita ma che appunto lo costituisce come sapere. Torniamo un attimo a Dante : è pur in presenza della fede che egli fissa la dimensione del deuil che caratterizza la vita terrena del filosofo, ma ciò nulla toglie all’autonoma verità esistenziale di tale condizione. Allo stesso modo, è in presenza della fede che Petrarca definisce non già la condizione ma piuttosto il movimento, l’inesausta tensione dialettica che lega il sapere al non-sapere che lo contiene, ma ciò non toglie, di nuovo, che la cosa valga in ogni caso, quale modello immanente ad ogni esperienza umana del conoscere, che il confronto diretto con la fede torna semmai a illuminare di luce più forte. Che Platone si sia ‘awicinato’ ma che non sia ‘arrivato’ là dove, del resto, neppure i nostri, cioè i pensatori cristiani, sono arrivati, non fa che sottolineare, insomma, l’elemento dinamico che anima il suo pensiero, la direzione del percorso compiuto e il significato di quello non compiuto, che ora diventa, propriamente, il contenuto di verità di quello compiuto. La grandezza di Platone, come quella di qualsiasi altro pensatore, non tanto si misura secondo una oggettiva quantità di sapere, ma invece riposa proprio su quel non-sapere che intimamente è suo e al quale affida il proprio movimento vitale. Il punto comincerà forse ad apparire più chiaro se si richiamano i versi du Triomphe de la Renommée III 4-8, che illustrano bene quanto è stato detto sin qui :
Je me tournai à ma gauche, et je vis Platon
qui parmi cette foule arriva plus près au but
auquel on arrive seulement si c’est le ciel qui le consent.
Après, je vis Aristote, doué d’haute intelligence, et Pythagore …
e con essi quelli di Dante, che, s’è già visto, incontra i grandi filosofi antichi nel Limbo, Enf. IV 131-135 :
je vis le maître à tout homme sachant
assis parmi la gent philosophique.
Tous lui rendent honneur, tous le remirent :
ici vis-je Socrate avec Platon
plus près de lui par devant tous les autres.
Ch’io sappia, non è mai stato osservato che Petrarca non solo capovolge esplicitamente l’ordine dantesco, ma rovescia pure, e senza dubbio alcuno con precisa intenzione polemica verso il predecessore, il criterio di giudizio. In Dante, Aristotele è primo in senso compiutamente positivo (conosce più cose degli altri), e rispetto a lui, assunto come termine ultimo di misura, \ »plus près\ » stanno Socrate e Platone. In Petrarca, Platone è primo perché è andato \ »plus près\ » alla verità, che solo per grazia divina può essere raggiunta … Insomma, là vale l’oggettiva quantità del sapere, ch’è misura a se stesso ; qui all’opposto, vale quello che manca al possesso di quella compiutezza inattingibile rispetto alla quale ogni sapere può qualificarsi come tale. In questo senso, è dunque ribadito che ogni vero sapere è una forma particolare d’ignoranza, perché riconosce d’essere fondato su una verità che gli appartiene solo in quanto lo trascende, e che un’ignoranza siffatta è la dimensione propria della vita morale, perché è il luogo dello spirito che infinitamente desidera ciò che gli si rivela solo come mancanza.
Siamo qui a un passaggio molto importante, e ci si apre davanti un panorama diverso. Se le articolate e in parte divergenti affermazioni di Dante dans le Banquet permettevano di attribuire all’ignoranza uno statuto speculativo riconoscibile, quale discorso fondato sui limiti del sapere nel suo rapporto con la felicità, ora Petrarca, assume tale statuto entro un discorso etico che riprende e però varia profondamente quello che lo stesso Dante finiva per fare a proposito dei grandi filosofi racchiusi nel Limbo. Questo discorso è soprattutto affidato alle pagine del già citato De ignorantia, sulle quali è ora il caso di soffermarsi.
IV. Il De ignorantia è costituito da una lunga, argomentata risposta al giudizio che quattro aristotelici avrebbero dato di Petrarca, allora sessantatreenne (la polemica risale al 1367), da essi definito uomo ignorante ma buono (par. 32: \ »… me sine literis virum bonum\ »). Di più non sappiamo. Possiamo tuttavia ragionevolmente supporre che i quattro rimproverassero a Petrarca la mancanza di cultura scientifica, corrispondente a una generale sottovalutazione di Aristotele e delle aristoteliche scienze della natura, e confinassero la sua opera nel ruolo di una mera testimonianza di tipo morale. La risposta, infatti, fa perno su questi due punti che Petrarca riconosce e conferma appieno, sì che il De ignorantia puo essere benissimo definito come il testo nel quale egli affronta con inusitata ampiezza e in modo definitivo il discorso su Aristotele, e nel quale rivendica la dimensione integralmente etica della sua concezione del sapere. Non è dunque vero (com’è spesso stato detto) che l’opera abbia come obiettivo polemico l’averroismo, che è semmai coinvolto di striscio : obiettivo vero e dichiarato è appunto Aristotele, individuato come il padre del moderno materialismo scientifico e del razionalismo etico, in quanto da lui essenzialmente dipendono sia le dottrine che negano l’atto della creazione e considerano eterno il cosmo e le leggi fisiche che lo governano, sia quelle che operano un’analoga espulsione di ogni modello trascendente dall’orizzonte delle verità morali e finiscono per ridurre l’etica a una casistica puramente descrittiva e classificatoria.
Petrarca, abbiamo detto, conferma l’accusa che gli viene rivolta, si riconosce in essa, esaspera la dicotomia che la costituisce. Ebbene si – risponde – so bene di essere ignorante, e davvero non me ne importa nulla, mentre vorrei con tutto il cuore essere buono … Ciò naturalmente va assieme a un vero e proprio capovolgimento dei parametri di giudizio che si ripercuote fittamente per tutto il tessuto dell’opera, ed è proprio questa ridefinizione dei criteri ultimi di valore sui quali fondare un possibile discorso sul sapere che dà un sapore e un fascino particolari al suo discorso. Egli esalta dunque la propria virtus illiterata, e si tratta di un’esaltazione che ha un’evangelica forza d’accenti, nel suo paragonarsi a una vecchietta ignorante e devota, \ »anicula sine literis\ », e soprattutto nel denunciare che, nei fatti, più di Aristotele conoscono la vera felicità \ »une quelconque pieuse vieille femme ou un pêcheur ou un dévot berger ou un paysan\ » (parr. 38 e 63). Ove appunto si intenda che il nerbo della contrapposizione non sta tanto e solo nel confronto tra l’ateo e il cristiano, ma in quello tra la frustrata e perciò infelice presunzione dello scienziato accecato dal proprio orgoglio intellettuale, e la felice umiltà di chi non riconosce in sé altra certezza che non sia la propria profonda e certo divina natura morale.
Non che Petrarca si riconosca davvero nella vecchietta o nel pescatore (né ciò toglie forza all’argomento). Piuttosto, egli sviluppa per tutta l’opera un contrappunto ironico, ora sottile ora marcato, fondato sulla sottaciuta eppur solare verità che non egli, Petrarca, è ignorante, ma i suoi detrattori. Ma questi due movimenti che animano il De ignorantia (l’accettazione parte vera e parte ironica della propria ignoranza) se ne intreccia un terzo che in qualche modo avvolge e giustifica gli altri due, sia sul piano morale che su quello intellettuale : è il movimento che di continuo sposta il discorso verso il fatto che ogni vera sapienza porta in sé l’ineliminabile senso del proprio limite perché è proprio a ridosso di quel limite che essa si costituisce come tale, e finisce dunque per essere una particolarissima forma di non sapere. Questi tre movimenti appaiono intimamente fusi nella struttura dell’opera, ma possono essere scomposti secondo logica in una serie di rovesciamenti successivi : prima, l’accettazione della propria condizione di ignoranza ; poi, la smentita pratica di tale condizione attraverso l’esibizione di una cultura superiore e del conseguente diritto/dovere di condannare l’effettiva, concreta ignoranza dei propri detrattori ; infine, il riconoscimento della generale, immedicabile limitatezza di ogni sapere umano, che raccoglie e sublima proprio l’ammissione iniziale e la proietta sullo sfondo di un mondo perituro.
Anche quest’ultimo punto merita una sosta, perché ha un posto importante nell’architettura dell’argomentazione : per dir meglio, ne costituisce una delle premesse. La lunga discussione che Petrarca svolge contro l’ipotesi dell’eternità del mondo, propria del mondo antico e di nuovo corrente nel pensiero filosofico scientifico del tempo, non ha, infatti, lo scopo di coniugare Platone e Cicerone con Agostino o Bonaventura per riaffermare il primato del dogma. Ciò che soprattutto preme a Petrarca è invece la piena disponibilità del risultato della discussione : cioè il fatto incontrovertibile che il mondo sarà travolto dalla stessa fine che incombe su ogni realtà umana. Se il mondo è frutto d’un gesto della volontà divina e se è destinato a sparire, ingoiato dalla fine di quel tempo che con esso è nato, ecco che, da una parte, si sbarra la strada a ogni divinizzazione della natura (ma anche a ogni pretesa d’assolutezza e autonoma regolarità delle sue leggi), e dall’altra si fa ricadere sulle scienze della natura il limite intrinseco all’oggetto studiato. Quale preminenza o nobiltà o superiore garanzia di verità potrebbe infatti vantare una conoscenzza che per definizione limita il proprio campo d’applicazione a ciò che è comunque destinato a morire ? E’ per questa via che la polemica contro il sapere naturalistico scientifico del tempo, qualificato come vana e frivola curiositas, nell’accezione fortemente negativa già di Agostino, conduce ad esaltare il primato dell’etica quale unica vera filosofia, e l’ortodossa difesa del creazionismo non guarda affatto indietro – alla creazione, appunto, sulla quale esclusivamente s’appuntavano i teologi -, ma avanti, alla fine del mondo, e dunque, in concreto, alla condizione esistenziale dell’uomo, questa creatura intrisa di temporalità che istante per istante vive la propria morte, il proprio irreversibile tragitto dal nulla al nulla. La strategia polemica del De ignorantia s’appoggia precisamente a questo ch’è prima di tutto un sentimento acuto di imperfezione, di insufficienza, che ben prima dell’individuo e dei suoi valori investe addirittura il cosmo, se è vero che la sua precaria esistenza è sospesa nel nulla in cui tornerà a sparire. Ecco perché Petrarca ha dedicato cure cosi speciali a questo problema. Egli vuole dire ai suoi avversari che l’universo per primo ‘ignora’ se stesso, e che l’ignoranza è la dimensione costitutiva della labile presenza umana sulla terra : meglio, è la forma stessa della labilità, la concreta, materiale e infine vincente minaccia della morte e del nulla. Da questo punto di vista, è interessante che Petrarca suggerisca una sorta di parallelismo, che vede da una parte il sapere umano e il tempo, e dall’altra l’ignoranza e l’eternità. Come il tempo, per quanto esteso lo si immagini, è propriamente nulla nell’impensabile rapporto con l’eternità, così il sapere effettivamente raggiungibile dal singolo è a sua volta in ogni caso un nulla, nell’altrettanto impensabile rapporto che intrattiene con l’infinita dimensione dell’ignoranza in cui siamo gettati vivendo nel tempo. Torniamo un attimo ad Aristotele. Proprio nell’opera di cui stiamo parlando Petrarca mette a fuoco un motivo che nei secoli successivi saranno in molti a riprendere da lui : ‘anche Aristotele fu un uomo, e in quanto tale non ha potuto sapere tutto’. Non solo non ha potuto sapere tutto : quanto è riuscito a sapere non rappresenta che una porzione infima di un tutto assolutamente indefinito, si che ogni superbia filosofica fondata su una parzialità siffatta appare poco meno che una bestemmia, mentre per contro il senso di tale limite, interiorizzato, alimenta una coscienza critica e autocritica che trasforma la conoscenza intellettuale in consapevolezza etica. Non è perciò né irrilevante né secondario che Petrarca finisca per ricorrere a un aneddoto (non so se inventato allo scopo : io sin qui non ne ho trovato la e) che ricongiunge l’immagine del filosofo a quella dell’uomo : \ »On dit qu’Aristote sur le point de mourir ait dit en pleurant que aucun ne devait se complaire ou être orgueilleux de son propre savoir, mais plutôt remercier Dieu si par hasard il en ait reçu plus de ce que habituellement les autres en ont\ » (par. 200). C’è una massima che Petrarca ha amato in modo speciale e ricordato spesso, quella che Cicerone ha ricavato da Platone : \ »Comme le même Platon dit, toute la vie du philosophe est en effet préparation à la mort\ » (Tusc. I 74 : posso qui ricordare il \ »si vis vitam, para mortem\ » di Freud ?). Così, Aristotele, il filosofo per antonomasia, sfigurato dai traduttori e divinizzato dai suoi stolti seguaci moderni, e pero in buona parte responsabile della loro deriva scientista, torna per Petrarca uomo e filosofo insieme, come non mai nel momento rivelatore della morte : piange e ammonisce, caricando le sue parole dell’inesprimibile peso non già del poco che ha saputo, ma del troppo che non ha potuto conoscere. Non conta più molto, dunque, tutta quella scienza naturale che presumeva di conoscere le proprietà più strane degli animali e che considerava eterno il creato e le sue leggi : anche lo scienziato, anche il filosofo che muore precipita nella voragine di tutto quello che non sa. E il confronto diretto, esistenziale, con questa verità della vita prima che dell’intelletto è tutto ciò che di lui dawero resta : ed è anche in questo modo, dunque, che Petrarca, come sopra si accennava, chiude i suoi conti con Aristotele.
Come si vede, lo schema di fondo del discorso di Petrarca è semplice e potrebbe persino sembrare del tutto tradizionale, orientato com’è a ripercorrere i capisaldi della morale stoica, rivisti cristianamente attraverso il pensiero di Agostino e i più vulgati precetti del memento mori. Ma la sua originalità non sta in questa o in quella affermazione, della quale è quasi sempre possibile ritrovare la e : sta piuttosto nella perfetta, articolata coerenza dell’insieme, e nel modo con il quale egli passa da una dimensione volta a volta intellettuale o moralistica a una dimensione esistenziale affatto nuova, immediatamente comprensiva di scelte morali, di atteggiamenti pratici, di orientamenti culturali capaci di tagliare di netto con il passato e di aprire nuovi orizzonti. Torniamo, dopo questa sorta di introduzione, ai punti già toccati parlando di Dante. Ebbene, Petrarca è il primo che appassionatamente afferma (expertus loquor è il motto che guida tutte le operazioni del suo pensiero e caratterizza le sue dimostrazioni) che il sapere non dà affatto la felicità, dal momento che la felicità non è legata alla dimensione del conoscere ma a quella dell’essere. Risentiamolo, ancora, a proposito di Aristotele :
Quoi que Aristote au début et à la fin de l’Ethique ait largement parlé du bonheur, j’ose affirmer … qu’il connaissait si peu du véritable bonheur qu’une quelconque pieuse vieille femme ou un pêcheur ou un dévot berger ou un paysan pourrait être je ne dis pas plus subtil dans l’analyse de l’idée, mais plus habile de la mettre en pratique (par. 63).
Se ci teniamo strettamente alla lettera, potremmo anche limitarci ad osservare che è del tutto prevedibile e addirittura doveroso che Petrarca ponga un preciso discrimine tra la possibile felicità di un pagano e quella di un cristiano, il primo sia pure Aristotele e il secondo una vecchietta o un contadino, se è vero che a tale felicità inerisce per definizione la sapienza che deriva dal possesso della verità ‘vera’. Ma è anche chiaro che il discorso non è risolvibile secondo questo unico schema, e che in realtà esso propone un’alternativa diversa e in certo senso più radicale, perché impone che si riconosca che la scienza che Aristotele sommamente rappresenta non abbia niente a che fare con l’effettiva natura morale dell’uomo, e ne sia tutt’al più, se rettamente intesa (‘sobriamente’, con il termine esatto che Petrarca deriva da san Paolo) un aiuto, un completamento : un mezzo, insomma, e per nulla un fine. Non esiste dunque alcun rapporto tra campi cosi qualitativamente diversi e spesso addirittura contrapposti si che il fatto di dissertare filosoficamente sulla morale e sulla felicità non ha a che fare con la personale felicità del filosofo o di chi lo legge più di quanto la scienza dello zoologo abbia a che fare con la felicità della balena o del grifo. Ricordiamo che Petrarca ha sempre concepito la conoscenza come una scelta etica di vita, e che ha sempre presentato le sue personali conoscenze alla luce del suo personale modo di essere e di comportarsi. Ora che si riconosce ignorante, si, ma almeno nelle intenzioni buono, conferma ancora una volta che la misura ultima del sapere non appartiene alle categorie dell’intelletto, ma alla verità della vita. La ‘vera’ conoscenza è un evento di natura etica, e solo in quanto tale puo comunicare con la felicità. In caso contrario, nella forma oggettivata della conoscenza scientifica, il sapere non procura affatto la felicità, e neppure mantiene rapporti con l’esercizio delle semplici e fondamentali virtù di cui gli umili personaggi evocati sono probabilmente provvisti. Così, egli rompe il nesso di vera e propria consustanzialità tra virtù/felicità e conoscenza che era stato tipico del mondo antico e che aveva avuto in Aristotele e nell’aristotelismo la sua definitiva sanzione, attraverso una concezione intellettualistica della felicità che la faceva dipendere dalla perfetta attuazione dei dettami della ragione, di per sé intrinsecamente virtuosi. Ma appunto, le cose non stanno così :
A quoi bon connaître la vertu, si une fois connue nous ne l’aimons pas ? A quoi bon connaître le mal, si une fois connu il nous fait pas horreu r? A vrai dire, si la volonté est pervertie, apprendre les difficultés de la vertu et les faciles séductions du vice peut même repousser au pire une âme paresseuse et incertaine … Il vaut mieux avoir une volonté charitablement vouée au bien plutôt qu’une raison lucide et réceptive. Et si, comme veulent les philosophes, le but de la volonté est le bien, et le but de la raison est la vérité, il est préférable vouloir le bien plutôt que connaître la verité, parce que la recherche du bien est de soi même toujour méritoire, tandis que la recherche de la vérité est plus souvent coupable et n’a pas de justification en soi même… (parr. 145 e 149).
Il rifiuto di ogni forma di razionalismo etico tocca qui, provocatoriamente, il uo limite. I teologi guidati da Tempier, abbiamo visto, avevano condannato la proposizione : \ »Si la raison est droite, en est de même de la volonté\ » (Hissette, n. 166), richiamando insieme Agostino e l’error Pelagii (\ »parce que de telle sorte à la juste volonté ne serait nécessaire la grâce, mais seulement la science, et cela est l’erreur de Pélage\ »). E’ chiaro che i censori hanno inteso colpire il senso più ovvio della frase, ribadendo che la volontà umana non è in grado con le sue sole forze di mettere in pratica quel bene che pure sarebbe in grado di intravvedere in via meramente teorica, implicitamente richiamando il grande motivo classico e paolino che Petrarca spesso ripete : \ »et je vois le meilleur, et je m’attache au pire\ » (RVF CCLXIV 136). Va pero osservato che tale senso non è l’unico possibile perché, sulla scorta di Aristotele, Ethique 1139a 22-31, si può anche intendere che si tratti non già della ragione teorica, ma della ragione pratica, cioè quella che agisce, per dir così, alla pari e strettamente implicata con la volontà, quando tale ragione sia già praticamente all’opera per il conseguimento di un fine buono, presupponendo che ci sia stata una scelta moralmente buona alla quale la volontà è pervenuta deliberando intorno ai mezzi che rendono effettivamente perseguibile e dunque reale quel fine. Decisivo, insomma, è l’atto della scelta morale che fonde in sé il momento della volontà e quello della ragione deliberante, secondo la definizione aristotelica (nel passo citato) : \ »le choix est un désir raisonné\ » (\ »eleccio autem appetitus consiliativus\ »). Onde si potrebbe anche dire che la ragion pratica è la verità in cui si trasforma la volontà attraverso la scelta, o addirittura che la ragion pratica è la verità della volontà. Aristotele infatti continua : \ »il faut donc que la raison soit vraie et le désir soit juste\ » (\ »oportet propter hec quidem racionem veram esse et appetitum rectum\ »), e proprio Petrarca sembra fargli eco quando scrive : \ »le but de la volonté est le bien, et le but de
la raison est la verité\ ». Ma – si badi bene – in Aristotele questa affermazione sottolineava l’intreccio indissolubile dei due momenti unificati nell’atto concreto della scelta morale, mentre in Petrarca ha valore disgiuntivo, e serve a rovesciarne il discorso in modo radicale.
Infatti. Da Aristotele in poi punto fermo resta sempre una ratio recta alla quale tocca di fissare i criteri direttivi della moralità, e rispetto alla quale la volontà deve saper regolare i propri appetiti. La volontà buona, insomma, non possiede in sé il fondamento della sua bontà, ma è tale solo perché conforme ai dettami della retta ragione cui spetta di assicurare, come abbiamo visto, che la volontà si trasformi in verità. Per Petrarca è esattamente il contrario. Egli ritorce contro Aristotele le sue stesse parole : se la volontà può essere di per sé buona (se esiste, ed esiste, l’appetitum rectum), conoscenza e ragione non hanno più nulla da dire d’essenziale, perché il bene può fare a meno della loro verità. La quale, infatti, a che serve (\ »A che serve sapere …?\ ») se non si fa essa stessa, in atto, volontà buona ? Il capovolgimento delle parti è completo. Ciò che trovava predicato della recta ratio (il fondamento del criterio morale) Petrarca lo attribuisce alla volontà, e ciò che trovava predicato della volontà (il suo problematico adeguamento a quel criterio) passa a caratterizzare una nozione di ragione/conoscenza alla quale la misura del suo proprio valore di verità non appartiene più.
E’ del tutto ovvio riportare questo conclamato primato della volontà all’influsso determinante di Agostino, corroborato, per la sua parte, da Seneca, il quale per primo ha rotto lo schema dell’intellettualismo ellenico introducendo il concetto di voluntas, che in lui diventa determinante nell’àmbito della problematica morale. Meno ovvio è però osservare la coerenza del discorso di Petrarca, che arriva a questo risultato attraverso la doppia svalutazione della conoscenza scientifica (è sempre parziale ed è incapace di procurare la felicità), e l’esaltazione di un’ignoranza che assume tutte le caratteristiche di un’esperienza morale fondamentale. Il fatto che tutti desideriamo conoscere, secondo l’assunto aristotelico, e che tutti desideriamo essere felici, secondo quello agostiniano, comporta solo che la nostra dimensione reale, il luogo segreto del nostro io non sia né quello della conoscenza né quello della felicità, ma sempre e unicamente quello del desiderio. Un desiderio frustrato sin che cerca ciò che vuole fuori di sé, nelle parziali verità di un imperfetto sapere, e per contro un desiderio non già appagato ma almeno orientato verso la felicità se ha imparato a riconoscere dentro di sé la propria misura e il proprio oggetto. L’unica felicità realmente possibile, insomma, è quella che deriva dalla certezza del proprio desiderio di felicità, fondato sulla conoscenza di sé (nosce te ipsum), e anzi coincidente con tale conoscenza, poiché esso altro non è che il desiderio di una perfezione che tanto più si rivela e appartiene all’uomo quanto più egli ne sperimenta la mancanza, e accetta per ciò di definirsi ‘ignorante’. E’ per questo che, a ben vedere, se c’è un’esperienza di valore che Petrarca interpreta in chiave personale e che oppone continuamente ai suoi detrattori, questa sta nel movimento, nella tensione che sempre l’ha animato, e insomma, per dire ancora con Agostino la parola giusta, nell’amore :
Je crois avoir lu tous les livres d’Aristote sur l’éthique : en plus, de certaines j’ais entendu l’explication critique, et j’arrivais même à faire croire d’en comprendre quelque chose, avant qu’on découvre toute mon ignorance. Enfin, en regardant en moi même, il est possible que à cause de ces livres je me sois trouvé un peu plus savant, mais pas pour autant meilleur, comme il aurait du arriver … Je vois, bien sûr, qu’Aristote définit très bien qu’est que c’est la vertu, et je vois qu’il la subdivise et l’analyse avec finesse, et il fait la même chose avec tous les éléments qui partie du vice, d’un côté, et de la vertu, de l’autre. Quand j’ais appris tout ça, je sais peut-être un peu plus que je ne savais avant, mais mon âme est restée tout à fait la même qu’auparavant, et la volonté aussi est restée égale et moi même je suis resté tel que j’étais. En effet, autre chose est savoir et autre chose aimer ; autre chose est comprendre, et autre chose vouloir… (parr. 143-144).
V. Ci sarebbero molte altre cose da dire. Qui, vorrei limitarmi ad accennarne una, e a svilupparne un po’ più diffusamente un’altra : entrambe, muovono dalla dimensione entro la quale Petrarca ha definito le coordinate essenziali del suo concetto di ignoranza, ed entrambe sottolineano la profondità del solco che ormai lo divide da Dante.
La prima. Con apparente paradosso, Petrarca, accusato dai suoi quattro detrattori di ignoranza, è proprio colui che predispone la struttura concettuale che più potentemente ha contribuito all’avanzamento del sapere. La sua visione etica che presuppone l’uguaglianza degli uomini di tutti i tempi non già sul fondamento della quantità materiale di nozioni possedute, ma piuttosto sull’insufficienza di ogni possibile sapere, permette infatti l’apertura pressoché illimitata al patrimonio della sapienza antica, e la porta a noi come qualcosa che non ha mai smesso di appartenerci. Da questo punto di vista, l’uguaglianza dell’animo umano attraverso i tempi è la grande base sulla quale Petrarca costruisce l’intero edificiò della sua opera, ed è la chiave per il recupero dell’antico che egli fabbrica e consegna all’età dell’Umanesimo e del Rinascimento. E’ solo cosi, infatti che egli puo tornare a quel patrimonio e che puo riproporne i valori proprio in nome di ciò che ad essi manca, e dunque per ciò che essi hanno di profondamente, universalmente umano. Ogni autentico sapere, fisico o morale, antico o moderno, grava sui propri confini e si sporge di là da essi e chiama e pretende la propria impossibile integrazione, e in ciò appunto rivela sino in fondo la sua unità e la sua perenne attualità. A tanto Petrarca è giunto non in nome di un’esigenza di tipo intellettualistico, sull’onda di un moto di élargissement del campo delle conoscenze, ma piuttosto in nome di un’esperienza esistenziale che non finisce mai di rispecchiarsi nelle domande, nei tormenti nelle speranze e negli affetti ai quali egli trovava con sempre rinnovata emozione che gli scrittori latini avevano già dato voce e forma universalmente comprensibile. Che l’animo umano riesca a parlare attraverso le epoche, le religioni, le culture, lo stesso linguaggio di ogni altro animo, per esprimere la stessa sgomentante esperienza della vita e della morte è insomma, agli occhi di Petrarca, la prova provata che anche l’ultimo ignorato orizzonte dell’infinita verità nella quale ogni esperienza umana s’inscrive è per tutti il medesimo. Egli ha capito, insomma (e l’ha capito non tanto per sé, quanto per il suo tempo), che solo l’effettiva comunione dei valori custoditi nella sapienza antica avrebbe permesso sia un altrettanto effettivo recupero di un assai più vasto complesso di conoscenze, sia una concezione matura della nostra umanità. Il ponte che avrebbe allora ricongiunto i due mondi e che avrebbe poi sempre ricongiunto il presente dell’uomo al suo passato poteva essere costruito solo con le pietre dell’etica, e cioè poteva essere costruito solo in nome di una comune esperienza esistenziale, di una comune vocazione, di un comune destino : quello che la parola ignoranza compendia nel modo migliore possibile. E’ infatti proprio il concetto di ignoranza difeso da Petrarca che permette (ripeto, con paradosso solo apparente) di unificare e trattare il campo del sapere come un tutto organico, e di contrapporlo in quanto tale, come totalità storica dell’umano, allo scientismo specialistico dei suoi avversari.
La seconda cosa, di portata altrettanto innovativa, è forse meno lontana dal campo d’interessi di questo convegno, e si colloca tutta entro il discorso affrontato sin dall’inizio, circa il nesso sapere – felicità. Petrarca, abbiamo visto, lo disarticola in maniera radicale. Grossolanamente, potremmo dire che escludendo il sapere dal campo della felicità si trova immerso in una dimensione emotiva caratterizzata insieme dall’ignoranza e dal desiderio . Così, proprio in forza di tale disarticolazione e in presenza del nuovo nesso ignoranza – desiderio il concetto di ignoranza assume uno statuto complesso, dal momento che ogni discorso serio su di essa non può che diventare, da una parte, un discorso sui limiti e il senso di una conoscenza alienata, cacciata dalla sfera esistenziale, e dall’altra non può non legarla indissolubilmente a una nozione affatto nuova e pervasiva di desiderio. La formula già aristotelica e poi dantesca : \ »tous les hommes naturellement ont désir de savoir\ », dal momento che \ »la science est perfection dernière de notre âme\ », perde di colpo la sua millenaria centralità : dopo un cammino tanto glorioso, acquista di colpo il colore di una superficiale soluzione di comodo, e lascia ormai libero campo all’altro grande assioma che Agostino non si stanca di ripetere per tutta la sua opera : \ »tutti gli uomini desiderano essere felici\ ». Ecco, Petrarca è l’intellettuale che alle soglie dell’età moderna accoglie e ripropone tale assioma, e ne fa il centro tormentoso della riflessione sulla sua propria condizione esistenziale, e infine lo riduce al suo ultimo, inesauribile nucleo : \ »tutti gli uomini desiderano\ ».
Non è questa la sede di lunghe dimostrazioni. Io sono in ogni caso convinto che proprio questa lunga linea di rottura, questa faglia che s’allarga tra il sapere e la felicità e libera dal profondo i meccanismi del desiderio costituisca una delle radici segrete e pero determinanti del suo capolavoro, il canzoniere, e che proprio in essa stia la ragione profonda del fascino che esercitò per tutto il Rinascimento, e che ancora oggi ci tocca. Tra l’altro, credo si possa anche dire che, così facendo, Petrarca raccolga la dirompente essenza della prima grande poesia d’Europa, quella dei trovatori, che al tema del desiderio è ossessivamente votata, e ne sia il vero e grande erede, sviluppandone la lezione alla luce della sua statura culturale e critica, sino a imporla quale contenuto proprio di ogni esperienza lirica moderna. A questo le forze dei trovatori certo non bastavano, e l’arco discendente della loro esperienza, che si ricongiunge a quella di Dante ed è a ridosso di quella di Petrarca (l’ultima poesia del canzoniere di Guiraut Riquer, uno dei sicuri modelli di quest’ultimo, è del 1292) lo mostra ampiamente.
Petrarca ci dice che tutto ignoriamo (o, che è lo stesso, che a nulla serve quel che sappiamo), a fronte della certezza del desiderio infinitamente inappagato che ci costituisce. Si che quanto egli ha ha laicamente vissuto ed espresso con straordinaria lucidità è stato un lungo tormentoso consapevole giro attorno a quanto già aveva detto il suo maestro, Agostino : \ »Chacun est ce qu’il désire\ » (\ »Talis est quisque, qualis eius dilectio est\ » : Comm. alla prima lettera di Giovanni II 14). In questa luce, e per finire, vorrei allegare poche citazioni, quali chiavi preziose pér cogliere il momento in cui la coscienza infelice del desiderio s’accampa al centro dell’atto poetico. La prima, dal Secretum (altra opera di Petrarca fondamentale per tutti i temi che stiamo troppo velocemente considerando) personalmente mi pare straordinaria, e ad essa mi càpita spesso di tornare. Nel dialogo, il personaggio autobiografico di Francesco cerca di giustificarsi con l’antagonista, il personaggio di Agostino, affermando che, è vero, in passato ha desiderato, ma che quella fase giovanile e colpevole della sua vita è ormai chiusa, e altri ormai sono i suoi desideri. Ma Agostino ribatte : \ »Avoir voulu et vouloir, même s’ils diffèrent dans le temps, dans leur essence et dans l’âme de celui qui veut sont tout à fait la même chose\ » (\ »Voluisse tamen et velle etsi in tempore differunt, in re ipsa inque animo volentis unum sunt\ »: l. I, ed Fenzi p. 110). Se si è desiderato una volta, si è desiderato per sempre, e smettere non si puo perché al fondo ricompare, sempre, il desiderio medesimo : \ »je désire de ne pas désirer. Mais je suis emporté par mes mauvaises habitudes, et dans le fond de mon coeur je sens qu’il y a toujours quelque chose d’inachevé\ » (\ »cupio nihil cupere, sed consuetudine rapior perversa sentioque inexpletum quiddam in precordiis meis semper\ »: l. II, ed. cit., p. 166). Così, il desiderio ha in sé la sua propra condanna, per sempre :
A sa perte accourant alors libre et sans lien,
il convient qu’ore elle aille au bon vouloir d’une autre
cette âme qui erra un fois seulement. (RVF 96,12-14)